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La libido? E' eterna... finché dura! Pubblicato il Giugno 05, 2018 - 10:23

“Sei consapevole della tua vagina tutto il giorno, ovunque ti trovi - in macchina, al supermercato, in palestra, in ufficio. Sei consapevole di questa parte di te così preziosa, meravigliosa, generatrice di vita che hai fra le gambe, e perciò sorridi, piena d’orgoglio”.

 

 L’ho letto nell’introduzione alla nuova edizione de I monologhi della Vagina di Eve Ensler (Il Saggiatore) e mi sono sentita in trappola, in imbarazzo, in ansia, insomma poco bene. Ho pensato che fosse una questione generazionale (io ho trentatré anni, Ensler ne ha una sessantina) ma poi m’è venuta in mente quella scena meravigliosa di Pomodori Verdi Fritti, quando Kathy Bates non riesce a sbottonarsi il bustino durante il corso femminista a cui l’ha trascinata la sua amica magra coi capelli corti e allora scappa via mentre tutte le altre, inginocchiate su uno specchio nel quale devono guardarsi la vagina, ridono. E’ un film del 1991 e, già allora, la cosa più sana e sensata da fare, in mezzo a un collettivo femminista d’autocoscienza, era darsela a gambe levate quando qualcuno ti costringeva non solo e non semplicemente a far combaciare consapevolezza di te con consapevolezza di avere una vagina, ma pure all’uso propedeutico di entrambe nell’informarti su chi fossi.

 

 Sono capitata a un collettivo femminista d’autocoscienza qualche settimana fa. Mi sono divertita moltissimo. Si parlava di tabù sessuali. Io ho detto il mio: il letto di mamma e papà. Tutte hanno riso. Un’altra ha detto: la puzza dell’ombelico. Tutte abbiamo riso. C’era una porno attivista molto simpatica che ha detto di non aver fatto sesso per tre anni e di ricordarli con grande piacere. Nessuna si è guardata la vagina in uno specchio, mi è parso che fossimo tutte parecchio consapevoli di cosa abbiamo tra le mutande e dell’uso e consumo che possiamo farne, ma soprattutto mi è parso che fossimo tutte parecchio disinteressate a pensarci come portatrici di vagina o soggetti fieri di averne una (ma che razza di fierezza sarebbe?). 

 

 Quando Eve Ensler pubblicò I monologhi era il 1996: in occasione del ventennale, nel 2016, il New York Times scrisse che si trattava di una delle più importanti opere di teatro politico del decennio. Ensler se ne era andata in giro a parlare con molte donne diverse e aveva poi raccolto quello che le avevano raccontato sul proprio corpo e la propria sessualità. Era stata un’operazione culturale dirompente, un modo per desacralizzare e sacralizzare il piacere femminile, per raccontare la violenza sessuale, per contenere o far esplodere il potere dell’intimità delle donne, ma soprattutto era stata un’operazione di smantellamento di un tabù piuttosto plateale. Ne abbiamo beneficiato tutte.

 

 Mi interrogo sulle ragioni della riproposizione di questo testo, aggiornato di modo che sia inclusivo nei confronti di tutte le donne (a Eva Ensler è stato contestato, negli anni, di aver ignorato o sottovalutato le spinte del femminismo intersezionale) e, soprattutto, di modo che si proponga come efficace pratica di coscienza di sè.

 

 Non so se mia madre, che ha fatto il femminismo negli anni Settanta e Ottanta, abbia mai pensato a sé come vagina o a come impiegarla per appropriarsi pienamente di sè, non gliel’ho mai chiesto, ma so che se lo ha fatto in un tempo preciso in cui era necessario, o richiesto, o inevitabile, le sono parecchio grata per avermi risparmiato l’impiccio. Grazie, mamma, per essere stata consapevole della tua vagina mentre eri al supermercato: grazie a te, io, adesso, quando sono al Carrefour, posso pensare al commercialista o concentrarmi sul cassiere e sperare che lui non si concentri sul fatto che io ho una vagina. 

 

 De-sessualizzare (un pochino, con moderazione, con lucidità) il pensiero è il solo atto di emancipazione che mi preme e mi interessa: credo persino che sarebbe un esercizio potente di sdrammatizzazione. Diceva l’altro giorno il Journal of Sex Research che anche ai maschi passa la voglia di fare l’amore, specie con la stessa compagna di sempre, specie con la vecchiaia e la pressione che si alza e le pillole che aumentano e affaticano e infiacchiscono tutto, vitalità e slanci in testa. Niente di più di quanto non s’apprenda da Divorzio all’Italiana, se non fosse che la ricerca evidenza un altro punto, più interessante, più complesso: la problematicità del sesso (anche questa non è una scoperta inedita) fa rinunciatario anche il maschio, mica solo la femmina.

 

 Qui sta il sollievo: la libido maschile è eterna finché dura, la testa dei maschi non è quel ritrattino di Freud a forma di donna nuda che gira spesso su Facebook. Mi azzardo a ipotizzare che, a questo dato naturale che finalmente donne e uomini possono cominciare a confessarsi di condividere, si sia aggrappata la sopravvalutazione, tutta culturale, del sesso. 

 

 Eve Ensler sostiene che ripetere ad alta voce di avere una vagina, aiuti a capirne la sacralità ed io temo che se ritenessi la mia vagina un altare, non consentirei a nessun uomo di avvicinarmisi. Perché dovrei? I primi di maggio è uscito Il libro della vagina. Meraviglie e misteri del sesso femminile di Nina Brochmann ed Ellen Stokken Dahl (Sonzogno) e ho letto grande entusiasmo: operazione culturale necessaria (soprattutto per gli uomini, naturalmente); libro fondamentale; testo imperdibile; tutto quello che avreste sempre voluto sapere e non avete ancora osato chiedere; finalmente!

 

 L’analfabetismo sessuale è un grosso guaio, me ne rendo conto e dubito che lo risolveremo con la manualistica pop, ma questo è ancora prematuro per stabilirlo. Mi colpisce che nel 2018 esca un libro su come amare la propria vagina sia un modo per amare sé stesse. Mi domando se mi piacerebbe che un maschio pensasse al suo pene come uno strumento per amarsi. Mi domando se quello che abbiamo chiesto, per anni, agli uomini, non sia stato proprio di dimostrarci che non pensavano col cazzo e, dunque, mi fa innervosire parecchio che adesso io debba impegnarmi a studiare i misteri della mia vagina per essere più felice. Sapete, vorrei che la mia vagina fosse disimpegnata e, soprattutto, che rimanesse un’occasione di disimpegno.

 

 Non mi convincono molte cose della riflessione transgender, tuttavia uno degli spettacoli più emozionanti che ho visto negli ultimi anni è MDLSX di Silvia Calderoni, che è un delicato, potentissimo ritratto di un sé sessualmente indefinito. La storia della reazione di una ragazzina alla sua naturalezza, non appena capisce che quella naturalezza sarà sempre, invece, la diagnosi di una malattia. Lei dice a un certo punto “cosa ci tiene insieme quando diciamo noi è la domanda da porci”. Ed è così chiaro (e liberatorio) che la risposta non include il sesso, che proprio non trovo ragioni nè per andare in libreria per informarmi sulle potenzialità di quello che ho tra le gambe, nè per essere orgogliosa di avere una vagina.

 

 

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